28 luglio 2007

Non insegnate ai bambini

Non insegnate ai bambini
non insegnate la vostra morale
è così stanca e malata
potrebbe far male
forse una grave imprudenza
è lasciarli in balìa di una falsa coscienza

Non elogiate il pensiero
che è sempre più raro
non indicate per loro
una via conosciuta
ma se proprio volete
insegnate soltanto la magia della vita

Giro giro tondo cambia il mondo

Non insegnate ai bambini
non divulgate illusioni sociali
non gli riempite il futuro
di vecchi ideali
l’unica cosa è tenerli lontano
dalla nostra cultura

Non esaltate il talento
che è sempre più spento
non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza
ma se proprio volete
raccontategli il sogno di un’antica speranza

Non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all’amore, il resto è niente

Giro giro tondo, cambia il mondo

Giro giro tondo, cambia il mondo


(Giorgio Gaber)

27 luglio 2007

MAL DI PIETRE


Di Milena Agus
NOTTETEMPO
€ 12,00



Nel suo secondo romanzo l'autrice di Mentre dorme il pescecane racconta la storia di una donna (nonna della narratrice), della sua vita, del suo matrimonio e dei suoi amori.
In quest'ordine, appunto, perchè alla nonna tutto capita un pò in ritardo, quando ormai non ci spera più.
A cominciare dal matrimonio tardivo con un uomo che, ospitato dalla famiglia, si sdebita sposandola. L'amore arriva inaspettato durante una cura termale per curar "il mal di pietre", i calcoli renali. Il mal di pietre finisce così con l'identificarsi col mal d'amore e trascinare l'eroina in una vicenda assoluta, impensata felicità con il Reduce, un uomo zoppo e sposato, che soffre dello stesso male.
Perfetto e unico come una pietra preziosa, questo romanzo di Milena Agus ne conferma le grandi qualità di scrittura e di invenzione narrativa. (Edizioni Nottetempo)



Lo consiglio perché: rivela un universo tutto suo, dove sentimenti come l’amore e l’eros, seppur raccontati con distacco, leggerezza, risultano primari e forti. Un romanzo originalissimo, essenziale, dove davvero le parole sono come pietre.

25 luglio 2007

Il poeta



Il poeta è colui che con le parole incanta l'animo e fa battere il proprio cuore e quello altrui.

24 luglio 2007

I RAGAZZI VENUTI DAL BRASILE


Di Ira Levin
Mondadori
€ 7,80



Novantaquattro uomini devono morire: anziani pensionati, pacifici cittadini che nulla sembra distinguere dagli altri, che nessun legame sembra unire. Ma devono morire: in Germania, in Inghilterra, in America, entro la primavera del 1977. E tutto questo per il trionfo della razza ariana: così sostiene il dottor Josef Mengele, il famigerato medico dei lager nazisti celebre per i suoi crudeli esperimenti sulle cavie umane, che ha trovato scampo in un paese sudamericano da dove dirige l'intera operazione. Un piano folle, che ha dell'incredibile, eppure possibile. Di più, reale. Solo un uomo può fermarlo: Yakov Liebermann, scampato alla Shoah e strenuamente dedito, da anni, alla ricerca dei criminali nazisti. Liebermann è ormai vecchio, malato. Ma non è solo: un gruppo di studenti israeliani si mette al suo fianco, impegnati in una strenua lotta tra Bene e Male che si concluderà solo quando preda e cacciatore si troveranno finalmente di fronte, in un ultimo, drammatico confronto.


Da questo romanzo nel 1978 il regista Franklin J. Schaffner ha tratto l'omonimo film, con la sceneggiatura dello stesso Levin: un capolavoro del genere con due grandiosi protagonisti, Laurence Olivier nei panni di Liebermann e Gregory Peck in quelli di Mengele. (Mondadori)


Lo consiglio perché: è una riflessione su ciò che in nazismo è stato, sulla minaccia che esso ancora oggi rappresenta tramite i movimenti neonazisti e sui pericoli delle moderne scienze biologiche.

22 luglio 2007

V-DAY



8 SETTEMBRE 2007: VAFFANCULO DAY


L'8 settembre sarà il giorno del Vaffanculo day, o V-Day. Una via di mezzo tra il D-Day dello sbarco in Normandia e V come Vendetta. Si terrà sabato otto settembre nelle piazze d’Italia, per ricordare che dal 1943 non è cambiato niente. Ieri il re in fuga e la Nazione allo sbando, oggi politici blindati nei palazzi immersi in problemi “culturali”. Il V-Day sarà un giorno di informazione e di partecipazione popolare.

(Beppe Grillo)








20 luglio 2007

Cosa vuol dire perdonare?

[...] E allora quando io parlo di perdono, oggi ne parlo in maniera diversa da come ne parlai all'indomani della morte di Paolo. Ricordo che in mezzo alle macerie di via D'Amelio, mi si avvicinò un giornalista con il microfono in mano, me lo mise sotto il naso e mi chiese: “Ma lei perdona gli assassini di suo fratello?”. E io, per togliermelo di mezzo, per non rispondergli in maniera violenta - anche perché non ne sono capace, perché davanti ad una domanda di questo genere, davvero cascano le braccia - gli risposi istintivamente di sì. Forse me lo ha detto la mia educazione, il mio essere cattolica, quasi fosse obbligatorio perdonare chi ti ha fatto del male. Perché è un po' questa l'idea corrente, se si chiede a un familiare di qualcuno o a chi ha subito violenza di qualsiasi genere, se perdona oppure no. Tu ti aspetti che dica di sì, perché se quello ti dice di no, tu ci resti pure male, perché è quasi obbligatorio che quello li perdoni. Davvero ci si resta così. Io quando sento queste domande e ricordo quello che ho provato io, quando mi è stata posta, mi viene voglia di prenderli a schiaffi questi qui, di svegliarli, di dirgli: “Aspetta di provarlo tu e poi capirai la violenza che fa una domanda di questo genere”. Ma come fai in quei momenti in cui non ti rendi neanche conto di quello che ti è successo, in cui fai fatica veramente a prendere coscienza, a capire, in cui cerchi soltanto di rimuovere quello che ti fa male, quello che ti ha fatto del male, in cui sono tante le sensazioni che ti attanagliano, che l'ultima cosa che puoi fare è ragionare, ma come fai a rispondere? Io, ripeto, risposi istintivamente di sì, però devo dare un merito a questo giornalista - e ne abbiamo parlato in seguito, perché è anche una persona seria, lo fanno per mestiere, forse non è neanche colpa loro, è questo che gli chiede poi, l'esigenza della cronaca. Gli dissi: “Io ti ringrazio, perché mi hai fatto riflettere, perché non mi aveva neanche sfiorato quest'idea, non ne ho avuto il tempo, né la possibilità. Ma dopo che tu me lo hai chiesto, ho cominciato a pensarci su e ho seguito un percorso, un ragionamento che mi ha portato poi a rispondere in maniera consapevole a questa domanda, a rispondere a me prima di tutto, perché era questo che volevo capire io, rendermi conto io. E' un percorso, un ragionamento difficile, complicato, pieno d'insidie anche, pieno di sì e di no che ti tirano da una parte e dall'altra. Mi sono resa conto che per dare una risposta a questa domanda, devi mettere insieme la testa e il cuore. Non puoi rispondere solo con la testa, non puoi sentire solo quello che ti dice il cuore perché altrimenti, quello che tu dici poi in quel momento, resta incompleto, mutilato. E' un percorso che io credo non finisca mai, perché puoi dire un momento o pensare un momento una cosa e il momento dopo sentirti sopraffare dal dolore, dall'assenza della persona che ti era cara, dal risentimento davanti a qualcosa che vedi, che senti o che ti porta da tutt'altra parte. E' un percorso che credo non finisca mai, un percorso difficile e complicato, ma che ti fa prendere coscienza. Io ci ho ragionato sopra e mi sono resa conto che, come vi dicevo prima, che se è vero che io ho ricevuto, il dono di non odiare, il dono di non cercare vendetta, è un dono che ho ricevuto da Dio ed un dono che io devo condividere con qualcun altro. Non posso tenerlo stretto per me e se c'è qualcuno con cui devo condividerlo, è proprio con chi mi ha fatto del male. Perché altrimenti non è vero, non è sincero tutto questo. E' facile stare da una parte, isolandosi completamente da quell'altra. Tu devi metterti davvero davanti a chi ti ha fatto del male e rifare questo ragionamento, lo devi verificare in qualche modo, collaudare. E ancora una volta ho trovato un grande aiuto in questo percorso così complicato e così tormentato. Ero davanti alla televisione dove proiettavano le immagini della cattura di Totò Riina, questo ometto fotografato quasi per scherno sotto le fotografie di Paolo e Giovanni, nei locali della Questura di Palermo - non so quanti di voi lo ricordano - un ometto dimesso, piccolo, malvestito, quasi impacciato, che non sapeva dove mettere le mani, ma con uno sguardo che balenava sotto le palpebre che dava davvero i brividi. E mi chiedevo in maniera molto sofferta e quasi con paura cosa provavo nei confronti di questa persona, perché, vedete, altro è dire che non si odia, che non si prova rancore nei confronti di qualcuno che non conosci e altro è poi vederlo in faccia, materializzato. Allora è un po' diverso. Lo guardavo quasi con timore che affiorasse qualcosa che mi faceva paura. Allora ho sentito che dietro di me, piano piano, si era avvicinata mia madre. Mia madre aveva 86 anni, aveva visto morire suo figlio, perché Paolo veniva quel giorno a casa mia a trovare mia madre che non stava bene. C'era un rapporto fortissimo tra loro, aveva telefonato anche lui dicendo: “Sto venendo” e poi aveva avuto soltanto il tempo di pigiare il campanello del portone di casa. Mia madre aveva sentito il suono, sapeva che era Paolo, ed era scoppiato il finimondo. Muri che crollavano, tetti che si sbriciolavano, schegge da tutte le parti, pareti che si aprivano, sirene impazzite, fiamme dovunque. Mia madre sapeva che in tutto questo Paolo moriva. Mia madre si avvicinò a piccoli passi, non l'avevo sentita, sentii dietro di me la sua voce che diceva: “Che pena mi fa quell'uomo!”. E' stato per me un messaggio straordinario. Mia madre aveva visto l'uomo. Io ancora me lo chiedevo, non c'ero riuscita. Mamma con lo stesso sguardo di Paolo, aveva visto l'uomo dentro Totò Riina e aveva visto un uomo che le faceva pena, ma perché le faceva pena? Perché si chiedeva come quell'uomo si era potuto ridurre così, come quell'uomo aveva spento, aveva rischiato di spegnere quella scintilla umana che aveva dentro, quella scintilla divina che aveva dentro. Come aveva fatto? Erano le stesse domande che si faceva Paolo, quando chiedeva: “Chi sei, come giocavi, cosa facevano i tuoi genitori, perché non sei andato più a scuola?”. L'aveva racchiuso in una parola sola, mia madre, e io l'ho assorbito, l'ho penetrato, ho capito quello che lei istintivamente in quel momento mi aveva trasmesso. [...] (Rita Borsellino)

15 luglio 2007

Gli amici, come sceglierli.

3
1 Mi scrivi che hai dato a un tuo amico delle lettere da consegnarmi; mi inviti poi a non discutere con lui di tutto quello che ti riguarda, poiché tu stesso non ne hai l'abitudine. Così nella stessa lettera affermi e poi neghi che quello è tuo amico. Se usi una parola specifica in senso generico e lo chiami amico come noi chiamiamo "onorevoli" tutti quelli che aspirano a una carica pubblica, oppure salutiamo con un "caro" chi incontriamo, se il nome non ci viene in mente, lasciamo perdere. 2 Ma se consideri amico uno e non ti fidi di lui come di te stesso, sbagli di grosso e non conosci abbastanza il valore della vera amicizia. Con un amico decidi tranquillamente di tutto, ma prima decidi se è un amico: una volta che hai fatto amicizia, ti devi fidare; prima, però, devi decidere se è vera amicizia. Confondono i doveri dell'amicizia sovvertendone l'ordine le persone che, contrariamente agli insegnamenti di Teofrasto, dopo aver concesso il loro affetto, cominciano a giudicare e, avendo giudicato, non mantengono l'affetto. Rifletti a lungo se è il caso di accogliere qualcuno come amico, ma, una volta deciso, accoglilo con tutto il cuore e parla con lui apertamente come con te stesso. 3 Vivi in modo da non aver segreti nemmeno per i tuoi nemici. Poiché, però ci sono cose che è abitudine tener nascoste, dividi con l'amico ogni tua preoccupazione, ogni tuo pensiero. Se lo giudichi fidato, lo renderai anche tale. Chi ha paura di essere ingannato insegna a ingannare e i suoi sospetti autorizzano ad agire disonestamente. Perché di fronte a un amico dovrei pesare le parole? Perché davanti a lui non dovrei sentirmi come se fossi solo? 4 C'è gente che racconta al primo venuto fatti che si dovrebbero confidare solo agli amici e scarica nelle orecchie di uno qualunque i propri tormenti. Altri, invece, temono persino che le persone più care vengano a sapere le cose e nascondono sempre più dentro ogni segreto, per non confidarlo, se potessero, neppure a se stessi. Sono due comportamenti da evitare perché è un errore sia credere a tutti, sia non credere a nessuno, ma direi che il primo è un difetto più onesto, il secondo più sicuro. 5 Allo stesso modo meritano di essere biasimati sia gli eterni irrequieti, sia gli eterni flemmatici. Non è operosità godere dello scompiglio, ma lo smaniare di una mente esagitata, come non è quiete giudicare fastidiosa ogni attività, bensì fiacchezza e indolenza. 6 Ricordala bene, perciò questa frase che ho letto in Pomponio: "C'è chi si tiene così ben nascosto che gli sembra tempesta tutto ciò che succede sotto il sole." Bisogna saper conciliare queste due opposte tendenze: chi è flemmatico deve agire e deve calmarsi chi è sempre in attività. Consigliati con la natura: ti dirà che ha creato il giorno e la notte. Stammi bene.
(Lucio Anneo Seneca - Lettere morali a Lucilio, 1)

14 luglio 2007

VARIETA' DI ESILIO


Di Mavis Gallant
BUR
€ 9,20



I racconti non sono capitoli di un romanzo. Non vanno letti uno dopo l’altro. Leggetene uno. Chiudete il libro. Leggete qualcos’altro. Riprendete il libro dopo un po’ di tempo. I racconti sanno aspettare.




Individui spaesati e distratti, in esilio dalle loro origini o da sé stessi; l’incontro inatteso tra un uomo che vive da anni lontano dalla famiglia e la figlia adolescente della sua ex moglie; il percorso quieto e tortuoso di un fidanzamento senza amore; il piccolo mistero di un bambino non desiderato: a partire da queste situazioni la libertà di scelta dei personaggi viene messa alla prova. E una voce narrante inconfondibile fotografa le loro reazioni, descrive, classifica senza giudicare e restituisce il sapore vero di gesti apparentemente insignificanti, in realtà definitivi. Nella prefazione, scritta appositamente per questo volume, l’autrice riflette sui meccanismi della memoria e dell’immaginazione all’origine dei suoi racconti. (BUR)


Lo consiglio perchè: nonostante la sferzante ironia e la freddezza dello stile, sostiene storie toccanti ed intense, incentrate sul tema dell’esilio, del distacco, della memoria di ciò che si è perso.

11 luglio 2007

TuttoDante a Firenze

6 luglio 2007

Leggere

Leggere, in fondo, non vuol dire altro che creare un piccolo giardino all'interno della nostra memoria. Ogni bel libro porta qualche elemento, un'aiuola, un viale, una panchina sulla quale riposarsi quando si è stanchi. Anno dopo anno, lettura dopo lettura, il giardino si trasforma in parco e, in questo parco, può capitare di trovarci qualcun altro... Leggere non è un dovere, né un amaro calice da bere fino in fondo con la speranza di chissà quali benefici. Leggere vuol dire crearsi un proprio piccolo tesoro personale di ricordi e di emozioni, un tesoro che non sarà uguale a quello di nessun altro e che tuttavia potremo mettere in comune con altri.
(Susanna Tamaro - Cara Mathilda)

2 luglio 2007

Maria Callas, bellezza in fuga


Aveva una bellezza beffarda, di quelle che compaiono e scompaiono, da una foto all’altra, lasciandoti la curiosità di sapere com’era, veramente, quel viso. E aveva una voce che ha segnato la storia del teatro musicale come una ferita mai guarita. A leggere i libri su di lei, ti fai l’idea di una donna a cui la fortuna di un destino straordinario negò il piacere di un’ordinaria felicità. Morì nel modo più silenzioso possibile, in una lussuosa casa di Parigi, il 16 settembre di vent’anni fa, è morta la Callas, annunciarono stupefatti, tutti i giornali del mondo. Adesso che il rito dei ricordi si scatena, cavalcando l’aritmetica solennità del ventennale di quel giorno triste, bisognerebbe spiegare alla gente il perché di questa nostalgia inguaribile e di questa dilagante esibizione di affetto postumo. Mica facile. Bisognerebbe farli tacere, tutti, per qualche minuto, e spedire nell’aria lei che canta "Amami Alfredo": poi spegnere tutto e andarsene. Magari fermarsi ancora un attimo e lasciar cadere lì solo una frase, giusto per dare un indizio: non aveva una bella voce, lei. E via.
Una volta mi finì nel registratore una cassetta maligna, dove c’erano lei e la Tebaldi, una dopo l’altra: e cantavano. "Ebben? Ne andrò lontana", dalla Wally di Catalani. Non per tornare maniacalmente su una rivalità che ai tempi divise il popolo dell’Opera: ma aiuta a capire. Dunque. Per prima cantava la Tebaldi. Una meraviglia. Gli era venuta bene, a Catalani, quella pagina, niente da dire, l’aveva proprio imbroccata: ma bisogna anche saperla cantare così. Se ne filava nell’aria, quella voce, come il profilo di un paesaggio perfetto, illuminato da una luce senza esitazioni, disegnato per dimostrare che la perfezione è possibile, e dolce. Una cosa da rimanere imbambolati, veramente. Poi c’era un breve nero, e dopo: la Callas. Ti arrivava addosso, con le prime note, e quello che sentivi, immediato, era che improvvisamente l’incantesimo si era rotto, il paesaggio si era come oscurato, e quell’idea di perfezione, polverizzata. C’era, in quella voce, una piccola catastrofe: ci vedevi franare una certa idea di bellezza – olimpica, equilibrata, ordinata – e tra le macerie ti trovavi davanti qualcosa che non conoscevi. Qualcosa come una bellezza in fuga, inseguita dalla vita. E il paesaggio incantevole che avevi visto non c’era più, lì, davanti agli occhi. Perché ce l’avevi addosso.
E tu eri paesaggio, e lei con quella voce, e il buon Catalani, e tutto. Più nulla davanti, e ogni cosa addosso. Per questo è difficile dimenticarla, adesso: la sua voce è stata la Guernica della vocalità: ha squarciato qualcosa, e non c’è stata sutura capace di far dimenticare quel meraviglioso choc. Saliva sul palco e squartava il guscio della bellezza, per liberare una specie di esplosione che era musica, sì, ma prima ancora, vita evasa dalla prigione di una tranquillizzante eleganza, e storia che da lontano ti correva addosso come se da anni ti stesse cercando. Lei non cantava mai: raccontava. Aveva questa misteriosa capacità di addensare in ogni nota il crepitio di una storia. Le riusciva di racchiudere, in una frase, interi destini. La sua Violetta Valery non canta una nota in cui non sia scritta la sua morte: e quando muore, c’è vita che scappa da tutte le parti, in quelle note. Non so come facesse: ma si sente puzza di agonia quando esplode il suo "Sempre libera degg’io": e profumo di champagne, intorno al suo letto di morte.
Non so come facesse, ma so che, se era un trucco, non è più riuscito a nessuno. In questo senso, lei è stata probabilmente il punto di massima modernità mai raggiunto dalla prassi interpretativa del teatro musicale. Una specie di viaggio pionieristico al di là delle convenzioni, e della tradizione. Portò tutti in un luogo oltre, in cui il galateo un po’ pacchiano del canto dell’Opera veniva abbandonato in favore di una presa diretta, per così dire, sulle storie. Usava le sue straordinarie qualità vocali non per comporre un ordine, ma per dominare un’esplosione. Liberava il teatro, non lo incorniciava nella sua bravura o in un astratto ideale di bellezza: e così distruggeva il museo, e l’Opera diventava scheggia di storia viva, sparata a ferire il tempo reale. Lei cantava: e non erano riti postumi: era presente che accadeva. Forse è per questo che non ci riesce di dimenticarla: è la rivoluzione che non abbiamo fatto.
(Alessandro BariccoBarnum 2)