2 luglio 2007

Maria Callas, bellezza in fuga


Aveva una bellezza beffarda, di quelle che compaiono e scompaiono, da una foto all’altra, lasciandoti la curiosità di sapere com’era, veramente, quel viso. E aveva una voce che ha segnato la storia del teatro musicale come una ferita mai guarita. A leggere i libri su di lei, ti fai l’idea di una donna a cui la fortuna di un destino straordinario negò il piacere di un’ordinaria felicità. Morì nel modo più silenzioso possibile, in una lussuosa casa di Parigi, il 16 settembre di vent’anni fa, è morta la Callas, annunciarono stupefatti, tutti i giornali del mondo. Adesso che il rito dei ricordi si scatena, cavalcando l’aritmetica solennità del ventennale di quel giorno triste, bisognerebbe spiegare alla gente il perché di questa nostalgia inguaribile e di questa dilagante esibizione di affetto postumo. Mica facile. Bisognerebbe farli tacere, tutti, per qualche minuto, e spedire nell’aria lei che canta "Amami Alfredo": poi spegnere tutto e andarsene. Magari fermarsi ancora un attimo e lasciar cadere lì solo una frase, giusto per dare un indizio: non aveva una bella voce, lei. E via.
Una volta mi finì nel registratore una cassetta maligna, dove c’erano lei e la Tebaldi, una dopo l’altra: e cantavano. "Ebben? Ne andrò lontana", dalla Wally di Catalani. Non per tornare maniacalmente su una rivalità che ai tempi divise il popolo dell’Opera: ma aiuta a capire. Dunque. Per prima cantava la Tebaldi. Una meraviglia. Gli era venuta bene, a Catalani, quella pagina, niente da dire, l’aveva proprio imbroccata: ma bisogna anche saperla cantare così. Se ne filava nell’aria, quella voce, come il profilo di un paesaggio perfetto, illuminato da una luce senza esitazioni, disegnato per dimostrare che la perfezione è possibile, e dolce. Una cosa da rimanere imbambolati, veramente. Poi c’era un breve nero, e dopo: la Callas. Ti arrivava addosso, con le prime note, e quello che sentivi, immediato, era che improvvisamente l’incantesimo si era rotto, il paesaggio si era come oscurato, e quell’idea di perfezione, polverizzata. C’era, in quella voce, una piccola catastrofe: ci vedevi franare una certa idea di bellezza – olimpica, equilibrata, ordinata – e tra le macerie ti trovavi davanti qualcosa che non conoscevi. Qualcosa come una bellezza in fuga, inseguita dalla vita. E il paesaggio incantevole che avevi visto non c’era più, lì, davanti agli occhi. Perché ce l’avevi addosso.
E tu eri paesaggio, e lei con quella voce, e il buon Catalani, e tutto. Più nulla davanti, e ogni cosa addosso. Per questo è difficile dimenticarla, adesso: la sua voce è stata la Guernica della vocalità: ha squarciato qualcosa, e non c’è stata sutura capace di far dimenticare quel meraviglioso choc. Saliva sul palco e squartava il guscio della bellezza, per liberare una specie di esplosione che era musica, sì, ma prima ancora, vita evasa dalla prigione di una tranquillizzante eleganza, e storia che da lontano ti correva addosso come se da anni ti stesse cercando. Lei non cantava mai: raccontava. Aveva questa misteriosa capacità di addensare in ogni nota il crepitio di una storia. Le riusciva di racchiudere, in una frase, interi destini. La sua Violetta Valery non canta una nota in cui non sia scritta la sua morte: e quando muore, c’è vita che scappa da tutte le parti, in quelle note. Non so come facesse: ma si sente puzza di agonia quando esplode il suo "Sempre libera degg’io": e profumo di champagne, intorno al suo letto di morte.
Non so come facesse, ma so che, se era un trucco, non è più riuscito a nessuno. In questo senso, lei è stata probabilmente il punto di massima modernità mai raggiunto dalla prassi interpretativa del teatro musicale. Una specie di viaggio pionieristico al di là delle convenzioni, e della tradizione. Portò tutti in un luogo oltre, in cui il galateo un po’ pacchiano del canto dell’Opera veniva abbandonato in favore di una presa diretta, per così dire, sulle storie. Usava le sue straordinarie qualità vocali non per comporre un ordine, ma per dominare un’esplosione. Liberava il teatro, non lo incorniciava nella sua bravura o in un astratto ideale di bellezza: e così distruggeva il museo, e l’Opera diventava scheggia di storia viva, sparata a ferire il tempo reale. Lei cantava: e non erano riti postumi: era presente che accadeva. Forse è per questo che non ci riesce di dimenticarla: è la rivoluzione che non abbiamo fatto.
(Alessandro BariccoBarnum 2)