27 gennaio 2009

IL GIORNO DELLA MEMORIA



Se comprendere è impossibile,

conoscere è necessario.

(Primo Levi)

22 gennaio 2009

AMORE BUGIE & CALCETTO




Di Luca Lucini

Con Giuseppe Battiston, Claudio Bisio, Andrea De Rosa, Angela Finocchiaro, Chiara Mastalli, Filippo Nigro, Claudia Pandolfi.





Ogni settimana, sette maschi fuggono dalle loro pressanti mansioni quotidiane per godersi un'ora di battaglia primordiale. Sono i componenti di una squadra amatoriale di calcetto.
Vittorio (Claudio Bisio), classico "ragazzo cinquantenne", è alle prese con Viola (Chiara Mastalli) - sua giovanissima amante - e Diana (Angela Finocchiaro) una ex-moglie niente affatto rassegnata. Lele (Filippo Nigro) decide di sacrificarsi per salvare il suo matrimonio con Silvia (Claudia Pandolfi). D'altronde - pensa erroneamente - cosa sarà mai fare il casalingo? Piero (Andrea De Rosa) è ossessionato dagli schemi e pianifica al dettaglio la sua vita presente e futura e quella della fidanzata Martina (Marina Rocco). Presto però si accorgerà che non tutti gli imprevisti possono essere dribblati, soprattutto quando è un'inaspettata paternità a scendere in campo. Adam (Andrea Bosca) è il portiere, il miglior amico di Piero e il figlio di Vittorio, un tempo innamorato di Viola, ora nei guai con Martina. Filippo (Pietro Sermonti) è un giovane rampante, cinico e senza pietà per nessuno, tantomeno per gli amici mentre Il Venezia (Max Mazzotta) è la riserva del gruppo con tanta voglia di giocare. Infine il Mina (Giuseppe Battiston), giornalista e voce spirituale del gruppo, che entra in campo solo per tirare le punizioni.
Il destino della squadra segue di pari passo quello delle avventure sentimentali dei nostri protagonisti tanto che il Mister più che di schemi dovrà occuparsi di cuori. "In campo come nella vita"? Alle donne l'ardua sentenza. (Warner Home Video Italia)



Lo consiglio perché: non solo è un film carino, veramente carino, ma una serie di "istruzioni per l’uso", per tutte le donne che hanno difficoltà a comprendere questo rito maschile.

20 gennaio 2009

HOPE

L'America spera,

il Mondo spera,

io spero...

Nel frattempo, ho compiuto 38 anni.

17 gennaio 2009

CARUSO

13 gennaio 2009

La madeleine

Così per molto tempo, quando, stando sveglio di notte, ripensavo a Combray, non ne rividi mai se non quella specie di lembo luminoso, che si tagliava in mezzo a tenebre indistinte, simili a quelle che la vampa d'un fuoco di bengala o qualche proiettore elettrico illuminano e sezionano in un edificio, di cui le altre parti restino immerse nel buio: alla base, piuttosto larga, il salottino, la sala da pranzo, il richiamo dell'oscuro viale donde sarebbe giunto Swann, l'autore inconscio delle mie tristezze, il vestibolo per cui m'incamminavo verso il primo gradino della scala, che mi era tanto duro salire, e che costituiva da sola il tronco assai stretto di quella piramide irregolare; e in cima, la mia camera da letto col piccolo corridoio dalla porta a vetri per cui entrava la mamma; in una parola, sempre veduto alla stessa ora, isolato da ogni cosa che vi potesse essere intorno, stagliandosi solo nell'oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quello che si vede indicato a capo delle vecchie commedie per le rappresentazioni in provincia) al dramma dello spogliarmi, come se Combray non fosse consistita che in due piani riuniti da un'angusta scala, e come se là non fossero mai state che le sette di sera. A dire il vero, a chi m'avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray racchiudeva anche altre cose ed esisteva in altre ore. Ma, poiché quel che avrei ricordato mi sarebbe stato offerto soltanto dalla memoria volontaria, la memoria dell'intelligenza, e poiché le notizie che essa dà sul passato non mi serbano nulla, non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Tutto questo, in verità, era morto per me.Morto per sempre? Forse.

Il caso ha una grande parte in tutte queste cose, e un secondo caso, quello della nostra morte, spesso non ci permette d'attendere a lungo i favori del primo. Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che abbiamo perduto sono prigioniere entro qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto all'albero, che veniamo in possesso dell'oggetto che le tiene prigioniere. Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l'incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi.

Così è per il passato nostro. E' inutile cercare di rievocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde all'infuori del suo campo e del suo raggio di azione in qualche oggetto materiale (nella sensazione che ci verrebbe data da quest'oggetto materiale) che noi non supponiamo. Quest'oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo.

Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro o il dramma del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d'inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po' di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d'avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate « maddalenine», che paiono aver avuto come stampo la valva scanalata d'una conchiglia.

Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?

Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E' tempo ch'io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per.una spiegazione decisiva. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro si sente sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce.

E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica, ma l'evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge. E perché niente spezzi l'impeto con cui tenterà di riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l'udito e l'attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma, sentendo come l'animo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d'un tentativo supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse come disancorata, a una grande profondità, non so che sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze traversate.

Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev'essere l'immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti.

Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l'attimo antico che l'attrazione d'un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. Adesso non sento più nulla, s'è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, m'ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica.

E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «maddalena» che la domenica mattina a Combray ( giacché quel giorno non uscivo prima della messa ), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio.

La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non m'aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - anche quella della conchiglietta di pasta - così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota - erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza d'espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma, quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio del ricordo.

E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di " maddalena " inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti,, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.

(Marcel Proust - Alla ricerca del tempo perduto - Dalla parte di Swann)

12 gennaio 2009

Non una parola, non un pensiero, non un segno di dolore...

LETTERA AI POLITICI ITALIANI E NON SOLO da parte di Luisa Morgantini, Vice Presidente del Parlamento Europeo


Roma, 3 Gennaio 2009

Non una parola, non un pensiero, non un segno di dolore per le centinaia di persone uccise, donne, bambini, anziani e militanti di Hamas, anche loro persone. Case sventrate, palazzi interi, ministeri, scuole, farmacie, posti di polizia. Ma dove è finita la nostra umanità. Dove sono i Veltroni, con i loro “I care”, come si può tacere o difendere la politica di aggressione israeliana. La popolazione di Gaza e della Cisgiordania, i palestinesi tutti, pagano il prezzo dell’incapacità della Comunità Internazionale di far rispettare ad Israele la legalità internazionale e di cessare la sua politica coloniale. Certo Hamas con il lancio dei razzi impaurisce ed è una minaccia contro la popolazione civile israeliana, azioni illegali e criminali, da condannare. Bisogna fermarli. Ma basta con l’impunità di Israele e dei ricatti dei loro gruppi dirigenti.

Dal 1967 Israele occupa militarmente i territori palestinesi, una occupazione brutale e coloniale. Furto di terra, demolizione di case, check point dove i palestinesi vengono trattati con disprezzo, picchiati, umiliati, colonie che crescono a dismisura portando via terra, acqua, distruggendo coltivazioni. Migliaia di prigionieri politici, ai quali sono impedite anche le visite dei familiari. Ma voi dirigenti politici, avete mai visto la disperazione di un contadino palestinese che si abbraccia al suo albero di olivo mentre un bulldozer glielo porta via e dei soldati che lo pestano con il fucile per farglielo lasciare, o una donna che partorisce dietro un masso e il marito taglia il cordone ombelicale con un sasso perché soldati israeliani al check point non gli permettono di passare per andare all’ ospedale, o Um Kamel, cacciata dalla sua casa, acquistata con sacrifici perché fanatici ebrei non sopravissuti all’olocausto ma arrivati da Brooklin, pensando che quella terra e quindi quella casa sia loro per diritto divino, sono entrati di forza e l’hanno occupata perché vogliono costruire in quel quartiere arabo di Gerusalemme un'altra colonia ebraica. Avete mai visto i bambini dei villaggi circostanti Tuwani a sud di Hebron che per andare a scuola devono camminare più di un ora e mezza perché nella strada diretta dal loro villaggio alla scuola si trova un insediamento e i coloni picchiano ed aggrediscono i bambini, oppure i pastori di Tuwani che trovano le loro tanche d’acqua o le loro pecore avvelenate da fanatici coloni, o la città di Hebron ridotta a fantasma perché nel centro storico difesi da più di mille soldati 400 coloni hanno cacciato migliaia di palestinesi, costringendo a chiudere più di 870 negozi. Avete visto il muro che taglia strade e quartieri che toglie terre ai villaggi che divide palestinesi da Palestinesi, che annette territorio fertile e acqua ad Israele, un muro considerato illegale dalla Corte Internazionale di giustizia. Avete visto al valico di Eretz i malati di cancro rimandati indietro per questioni di sicurezza, negli ultimi 19 mesi sono 283 le persone morte per mancanze di cure, avrebbero dovuto essere ricoverate negli ospedali all’estero, ma non sono stati fatti passare malgrado medici israeliani del gruppo Physician for Human Rights garantissero per loro. Avete sentito il freddo che penetra nelle ossa nelle notte gelide di Gaza perché non c’è riscaldamento, non c’è luce, o i bambini nati prematuri nell’ospedale di Shifa con i loro corpicini che vogliono vivere e bastano trenta minuti senza elettricità perché muoiano. Avete visto la paura e il terrore negli occhi dei bambini, i loro corpi spezzati. Certo anche quelli dei bambini di Sderot, la loro paura non è diversa, e anche i razzi uccidono ma almeno loro hanno dei rifugi dove andare e per fortuna non hanno mai visto palazzi sventrati o decine di cadaveri intorno a loro o aerei che li bombardano a tappeto. Basta un morto per dire no, ma anche le proporzioni contano: dal 2002 ad oggi per lanci di razzi di estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone. Troppe, ma a Gaza nello stesso tempo sono stati distrutte migliaia e migliaia di case ed uccise più di tre mila persone tra loro centinaia di bambini che non tiravano razzi.

Dopo le manifestazioni di Milano dove sono state bruciate bandiere israeliane, voi dirigenti politici avete tutti manifestato indignazione, avete urlato la vostra condanna. Ne avete tutto il diritto. Io non brucio bandiere né israeliane né di altri paesi e penso che Israele abbia il diritto di esistere come uno Stato normale, uno stato per i suoi cittadini, con le frontiere del 1967, molto più ampie di quelle della partizione della Palestina decisa dalla Nazioni Unite del 1947. Avrei però voluto sentire la vostra indignazione e la vostra umanità e sentirvi urlare il dolore per tante morti e tanta distruzione, per tanta arroganza, per tanta disumanità, per tanta violazione del diritto internazionale e umanitario. Avrei voluto sentirvi dire ai governanti israeliani: cessate il fuoco, cessate l’assedio a Gaza, fermate la costruzione delle colonie in Cisgiordania, finitela con l’ occupazione militare, rispettate e applicate le risoluzioni delle Nazioni Unite, questo è il modo per togliere ogni spazio ai fondamentalismi e alle minacce contro Israele. Lo hanno detto migliaia di israeliani alla manifestazione Tel Aviv: ci rifiutiamo di essere nemici, basta con l’occupazione, fermate il massacro. Dio mio in che mondo terribile viviamo!

2 gennaio 2009

IL GRUPPO


Di Mary McCarthy
Einaudi € 11,50

Otto ragazze fresche di laurea, otto amori, otto destini femminili che si intrecciano nell'America di Roosevelt: un romanzo che fece esplodere i problemi sessuali ed esistenziali di una società insoddisfatta, scioccando il pubblico degli anni Sessanta.

Il "gruppo" è costituito da otto inseparabili ragazze, compagne di studi al prestigioso ed esclusivo Vassar College. Dopo la laurea, nel 1933, iniziano tutte a inseguire qualcosa di diverso da ciò che il destino ha loro assegnato, ma collezionano sconfitte. Il romanzo segue a turno le otto amiche nelle loro vicende erotiche e familiari: matrimoni poco felici, tradimenti, ma anche tipi di scelta meno convenzionali.

Un romanzo dallo sguardo satirico che riesce a raggiungere le profondità della tragedia, e che delinea acutamente l'America di Roosevelt e del New Deal, un paese in rapida transizione tra grandi entusiasmi e grandi squilibri. Un romanzo che è anche uno studio delle trasformazioni del costume, in cui si parla di politica e femminismo, di adulterio e sessualità, di psicoanalisi e di uomini. (Einaudi)

Lo consiglio perché: queste otto ex collegiali, che discutono di sesso, mariti, amanti e contraccettivi, oggi prenderebbero in contropiede pure le ragazze di "Sex and the City"!